INTERVISTA A PAOLA BARBATO
Dai romanzi a Dylan Dog. Nello sci, lo slalom è il fumetto, la discesa libera la scrittura.
Paola benvenuta a G.A.Z Magazine
Grazie
Paola Barbato è già famosa, basta fare una piccola ricerca notturna su internet, come ho fatto io, per accorgersi che c’è già tanto su di lei. Sceneggiatrice, soggettista di Dylan Dog e non solo…
Partiamo proprio da Dylan Dog. Come nasce l’amore di Paola per quello che possiamo considerare il fumetto più venduto in Italia?
In questo periodo non saprei, ma è stato sicuramente il più venduto in Italia dopo Tex. Dato che da poco ho compiuto quarant’anni
(Auguri Paola!)
sono perfettamente nella generazione di quelli che erano adolescenti quando è uscito Dylan Dog. Ho cominciato a leggerlo quando avevo sedici anni, nelle pause di un lavoretto estivo. All’inizio ne sono rimasta scioccata. Turbatissima, ho giurato che non l’avrei più letto perché mi faceva stare male. Poi, come per tutte le cose che in un primo momento spaventano, è arrivata l’attrazione e l’ho letto tanto tanto tanto tanto. Nel frattempo scrivevo, ho consegnato a piedi a Milano la mia raccolta di racconti a tutti gli editori possibili ed immaginabili. Me ne era rimasta una copia e l’ho lasciata in Bonelli. Dopo sei mesi arrivava la telefonata di un signore che dice: “Pronto, sono Mauro Marcheselli”, era come essere al telefono con la mamma di Dylan Dog, perché all’epoca era il curatore, l’editore e il soggettista di alcune delle storie più importanti di Dylan Dog, “lungo addio” e “Johnny Freak” e moltissimi dei soggetti cardine di Dylan Dog sono suoi. Mi ha detto: “Vuoi provare a fare qualche pagina?”, io gli ho fatto un albo intero. Ovviamente non andava bene, ma qualcosa di buono c’era, per cui ho cominciato a lavorare. All’inizio mi tagliavano i dialoghi a falciate, perché non avevo il senso della visualizzazione quindi scrivevo tutto quello che si vedeva.
Com’è il rapporto con i disegnatori?
Bisogna distinguere due categorie: quelli che amano avere il contatto diretto con lo sceneggiatore e quelli che invece preferiscono essere guidati dall’editor. Ovviamente i primi scelgono un terreno di guerra sul quale ci si fa a pezzi per il bene del fumetto. Anche perché quello che io visualizzo può essere diverso da quello che visualizza un disegnatore, ed è bello quando mi consegnano le tavole, sia che rappresentino esattamente quello che mi ero immaginata, sia che siano completamente diverse, perché è una sorpresa immensa e scopri di colpo che potevano essere un’altra cosa che è bellissima lo stesso. Io mi sono quasi accoltellata con alcuni disegnatori, ma poi quando ci ripensi ti dici: “Ti ricordi che bello quell’albo?!”.
Avrai sicuramente i tuoi disegnatori preferiti.
Poche volte è capitato che i miei albi siano andati ai disegnatori che io potevo avere in mente per il tratto. Non può andare sempre così perché bisogna vedere se il disegnatore se libero, disponibile e se accetta di fare la sceneggiatura. Però in alcuni casi sono riuscita ad avere il disegnatore che sognavo e c’è stato un rapporto di collaborazione. Per esempio Fabio Celoni, per quanto riguarda “Tocco del diavolo”, Nicola Mari per “Specchio dell’anima”, che è uno dei miei albi preferiti. Ho adorato Luigi Piccatto, con cui c’è stato un sodalizio per diversi albi. Mi è piaciuto molto “Sciarada”, però più di tutti mi è piaciuto “La scelta”, dove Luigi è stato fantasmagorico. Però effettivamente buoni rapporti li ho avuti praticamente con tutti. Recentemente Angelo Stano, che ha fatto “Anime prigioniere”, ha cominciato a telefonarmi dicendo “Non ho capito niente!”. Io gli ho detto: “Ok Angelo, tu vai, naviga a vista e ogni volta che qualcosa non ti torna chiamami” e devo dire che ha fatto un lavoro splendido. La fortuna è che molti disegnatori mi dicono che si divertono quando lavorano alle mie sceneggiature. C’è stato Buno Brindisi, che è uno dei guru di Dylan Dog, che ha fatto uno degli albi in assoluto più difficili, una storia dove tutti i personaggi erano uguali e cambiavano solo per età, altezza, bassezza, grassezza, magrezza, questo per tutti gli uomini e tutte le donne. E quando lui mi dice “beh, è stato divertente”, è una soddisfazione…
Ma in casa Bonelli lo staff è prevalentemente maschile…
Sì, lo staff è prevalentemente maschile. C’è da dire che, secondo me, c’è una forma di snobismo da parte delle donne. Cioè, una che vuole scrivere deve fare narrativa. Io mi chiedo come mai tutte le scrittrici brave che abbiamo, e ne abbiamo, non si cimentino con il fumetto. Come se il fumetto fosse arte povera. Ma non è vero che è arte povera, anzi, è molto difficile. Si vede che è un rischio che non vogliono correre, peggio per loro perché si perdono un’esperienza narrativa davvero notevole, e molto difficile, è una disciplina che poi ti porti anche nella narrativa.
Ed è anche un lungo percorso, perché è dal ’97 che scrivi per Dylan Dog. Dylan Dog c’è da 25 anni, tuo è anche il doppio albo per il ventennale e, possiamo dirlo, sei una delle autrici più amate...
Più odiate anche. Il pubblico è spaccato in due: ogni volta che esce un mio albo o è un capolavoro o merda.
Dylan Dog è un po’ diverso in ogni sceneggiatura, però in qualche intervista leggevo che Dylan Dog è sempre Dylan Dog, così come il suo papà, Tiziano Sclavi, lo ha creato.
Non è fatto in maniera stereotipata per cui sai che Dylan Dog è “forte” e “coraggioso”. No! E’ malinconico però è romantico, è apparentemente sempre negativo e amareggiato, ma in fondo gli rimane sempre la speranza infantile che non muore mai. E’ un innamorato dell’amore ma non è un donnaiolo né un playboy, perché Tiziano ha dato un’interpretazione precisa. Lui si innamora ogni volta, ma ogni volta viene lasciato. Perché? Chiediamocelo!
Chiediamocelo...
Sostanzialmente è uno poco pratico, che fa una vita sempre al limite con i soldi. Passa i pomeriggi a piangersi addosso e macerarsi dicendo “Ecco, non c’è lavoro, oddio come farò…” e gli diresti “allora vai a cercarti un lavoro”, lui non ci va. Quindi lui ha una vita di cui si lamenta ma che in fondo gli piace. Sono tutte caratteristiche da cui io non posso prescindere e nessun sceneggiatore dovrebbe mai prescinderne, perché Tiziano lo ha cesellato, e da lì non si scappa. Puoi magari scegliere un aspetto di Dylan che ti si avvicina o ti si allontana di più, e concentrarti su quello se hai voglia di “mettere del tuo”. Ci sono degli aspetti di lui che mi irritano come donna, per esempio il fatto che ha una certa pigrizia mentale, che mi fa innervosire. Per cui io spesso lo forzo, lo sbatto in situazioni in cui lui deve agire e non deve decidere. Perché se deve decidere inizia a dire “Sì” poi “No”, “Forse”, poi decide “non lo faccio” ma lo fa e continua a lamentarsi “ecco, l’avevo detto che non si doveva fare”. Io taglio questa cosa e lo butto nelle situazioni, lui poi quando ci si trova agisce, perché è fatto così. Difatti è una soddisfazione sapere che mi è stato detto di tutto ma mai che lo snaturo.
Il personaggio è maschile, quindi ci può essere la difficoltà di rappresentarlo per un’autrice donna, ma tu ci riesci benissimo…
Chiunque sia uomo non sa cosa vuol dire essere donna, e viceversa. E’ un concetto base. Quindi tutto ciò che uno scrittore, un autore porta dell’altro sesso è una visione. In realtà se si volesse scrivere bene bisognerebbe scrivere solo di ciò che si conosce empiricamente, e noi empiricamente il mondo maschile non lo conosciamo, si fa del nostro meglio.
Paola, hai iniziato a scrivere molto prima di sceneggiare. Ami di più il fumetto o il romanzo?
Sono due piaceri diversi, anche se fanno sempre parte dell’intrattenimento. Nello sci, lo slalom è il fumetto, la discesa libera è la scrittura. E qui ti puoi ammazzare, perché perdi il controllo. Lo slalom ti consente un controllo maggiore, il fatto di essere costretto a frenare perché ci sono dei paletti a dare la direzione. Sì, capita l’incidente, però è difficile perdere il controllo completamente. Nella discesa libera sta tutto a te, sei tu che devi controllare tutto non tutti lo sanno fare: alcuni vanno troppo piano o troppo forte, sbandano, perdono la strada o si dilungano in giri lunghissimi che non c’entrano niente.
Il film su Dylan è stato contestato un po’ dovunque, ha ricevuto critiche molto pesanti. Cosa ne pensi?
Quello non era un film su Dylan Dog, avrebbero dovuto dire che è un film “ispirato” a Dylan Dog, sarebbe stato diverso.
Ora se tu in Dylan Dog parti dicendo “togliamo Groucho”, hai già fregato. E poi la scelta di Londra... non volevano andare a Londra? Potevano costruirla ad Hollywood! Bastavano cinque riprese a Londra, con il Big Bang e tutto quanto, e tutto il resto si poteva fare nei vicoli di qualsiasi cittadina americana. E’ stata proprio una scelta a priori insensata, io ho contestato moltissimo il fatto che tolto Groucho, non avrebbero dovuto mettere nessuno. Nessuno. Punto. Non ci mettere un secondo assistente, perché è aggiungere una cosa che non c’entra niente, e da lì in giù potremmo fare un elenco infinito, perché poi, è vero che il film bisognerebbe giudicarlo per quello che è, ma è difficile. Quello lì non ha nulla di Dylan, del carattere di Dylan, non è mai stato tracotante. Non è uno, che so, che approccia le donne dicendo “Salve, sono Dylan Dog” ma trova anzi qualche scusa scema del tipo “Mi scusi, guardi le è caduto questo...”, per fortuna che essendo belloccio le donne ci cascano.
Ora passiamo ai romanzi di Paola, siamo già al terzo.
BILICO, 2006 – Mani Nude premio Scerbanenco 2008 e ora IL FILO ROSSO, siamo in ambito noir. Potremmo definirlo un thriller ma non solo?
Il thriller in realtà è una scusa, tutti i miei romanzi sono una scusa per parlare d’altro.
Parlo della gente, della società per come la percepisco io. Della violenza che viene fatta dai fatti di cronaca [nera ndr] non solo sulle vittime ma su chi rimane. E spesso la violenza viene fuori reiterata dal clamore, dalla curiosità, dal fatto che in ogni caso, qualunque giustizia si raggiunga, di fatto la giustizia non c’è mai, perché nel momento in cui una persona viene uccisa, non torna. Questa una delle primissime riflessioni fatte, che riguarda anche le tantissime fotografie che periodicamente vengono mostrate. Mi chiedo cosa provano i parenti delle vittime quando le vedono. C’è il luogo del delitto, un orologio, una macchia di sangue. Ma se quell’orologio, quella macchia di sangue sai che sono di tua figlia, puoi anche non vedere il corpo ma…
Sono partita nel mio romanzo da questo punto di vista specifico, cioè da cosa farei io se mi trovassi nei panni di una di queste persone.
Le figure centrali sono tre, la vittima, il carnefice e la terza che tu evidenzi fortemente: “chi rimane”, il sopravvissuto al dolore di un’atroce perdita. Nella cronaca nera attuale si spettacolarizza molto la vittima, così poi come altrettanto facilmente se la si dimentica per il caso successivo, però chi rimane…
Eh, chi rimane… rimane. In questo libro l’ingegnere Lavezzi è un uomo medio, dal mio punto di vista anche mediocre, che non mi somiglia, sostanzialmente un debole.
La domanda che ci si pone è: cosa succede se armi la mano di un debole? è vero che il debole fa meno danni? è vero che il debole rispetto al forte ha più il senso della realtà, più capacità analitica, di contenimento dei sentimenti? Il libro contiene moltissime domande, una fondamentale è l’uso che la società fa dei delitti e dei fatti di cronaca in generale. Di fatto si fruisce dei fatti di cronaca, e questo è tremendo. Non ci si limita a prenderne atto, si usano, si citano, si raccontano, si cercano, si seguono, ci si informa. E’ così anche per me, io stessa ho la curiosità, è un termine orrendo, sto aspettando che escano i risultati delle analisi del DNA sulla saliva di una di quelle due bambine chiuse nel bagagliaio della macchina del padre. 90 o 40 giorni per sapere se nella saliva c’era del veleno o no. E io aspetto. Questo è tremendo, perché io non dovrei neanche pensare che voglio saperlo. Che cosa me ne viene? quelle due bambine sono morte. Però io aspetto lo stesso, e questo non è bello. E probabilmente io non sono nata così, lo sono diventata perché è diventato normale.
Come concìli il fatto di scrivere storie molto cruente con l’essere mamma di due bambine, nella quotidianità?
E’ un tutt’uno, chi dice che non è così dice balle. Le paure sono l’altra faccia di quello che si sente. Si scrive davvero di quello che ti appartiene, che siano cose che non ti piacciono di te, che siano pensieri, domande, paure, di questo si scrive. C’è una frase americana che mi piace molto che dice che avere figli è terrificante, è come se il cuore uscisse dal corpo e se ne andasse in giro da solo. Ed è abbastanza precisa come immagine, se uno immagina il cuore, non tanto come “il cuore”, ma come quell’unica cosa che ti fa vivere, che esce, se ne va, non sai dov’è e senza non vivi. Nel momento in cui metti al mondo qualcun altro non hai più paura per te.
Sei spesso su Facebook e nei social network, ogni tanto ti vedo in linea di notte, raccontaci il tuo rapporto con questi nuovi media
La vita sociale è quella per me. Ho provato ad avere due profili, uno personale e uno professionale ma era un massacro, quindi ho deciso: mi do in pasto agli altri. Avere casa, genitori un pochino in età, due bambine, lavoro e la vita, lascia pochissimo margine agli spazi sociali. Faccio fatica a telefonare, anche perché lo faccio sempre con una che mi urla da una parte, e l’altra che mi chiede “sono le sette!? sono le sette! sono le sette!”anche quando sono le cinque e un quarto “Virginia, mancano due ore” “Sono le sette! sono le sette! Giochiamo?!”. Ecco, tutta la giornata è così, per cui anche solo i cinque minuti in cui mandare un messaggio all’amica alla quale telefonerei ma non ho tempo, vedere come sta quell’altro e cazzeggiare due minuti è un sollievo. Posso capire chi odia facebook, chi dice che toglie vita sociale, ma siccome io non ce l’ho, è quella per me la vita sociale, allora sono contenta e facebook mi piace.
E’ un canale di promozione per i tuoi libri? trovi i tuoi fans?
Ci vengono sicuramente persone che mi conoscono perché mi leggono, ma credo che non c’entri nulla con la promozione, perché allora dovrei dare per scontato che dato che ho tot amici venderò tot libri, e questo non è assolutamente vero.
“IL FILO ROSSO”, ci spieghi la scelta del titolo?
Il titolo è stato scelto estrapolando una frase interna del romanzo. Per me la scelta dei titoli è un problema abnorme perché non rientro nelle logiche del marketing. Non penso mai a un libro che abbia un certo titolo perché deve vendere, per essere accattivante, simpatico ma penso ad un titolo che calza il libro. Tante volte mi dicono che c’è un titolo identico nella stessa collana, e questo mi mette in crisi, perché per me di titolo ce n’è sempre uno solo, che è il primo, e se non mi viene approvato quello comincio ad annaspare. Quindi quasi sempre lo si cerca all’interno del libro, non ragioniamoci in maniera sempre così istintiva “de core, de pancia” perché non ha molto senso: effettivamente titolo, copertina, strillo sulla quarta di copertina e riassunto sono importanti, perché sono la presentazione, il primo impatto del signore sconosciuto che non ha mai letto nulla di mio ed entra in libreria. Il libro deve catturare la sua attenzione, il titolo dovrebbe fargli venire voglia di prenderlo in mano. Di solito aprono e danno una scorsa al riassunto, quindi va fatto bene, e se apre la prima pagina le prime dieci righe sono fondamentali. Se non scrivi dieci righe che facciano venire voglia di leggere le altre prossime dieci…
Il personaggio del FILO ROSSO è un bambino sequestrato, violentato per 14 anni, un personaggio molto difficile.
E’ un personaggio difficile perché non sa amare, si odia, si fa odiare.
Qualche scrittore a cui ti sei ispirata, quale scrittore ami?
In realtà sono legata molto a tanti scrittori non omogenei, vado da Pennac, Pinketts ovviamente, mi piacciono abbastanza gli italiani, amo Ammaniti, amo moltissimo uno spagnolo che si chiama Quim Monzo, Mario Vargas Llosa, ho amato una certa Fallaci, Calvino, ho addirittura amato Asimov, non sono necessariamente legata a una cosa che esce oggi. King. Tutto King, finché ha saputo scrivere. Tante volte compro cose che sono uscite 20 o 50 anni fa, o anche di più.
So che stai scrivendo un nuovo libro. Quando uscirà?
Dovrebbe uscire nel 2012, navigo a vista. E’ sempre un thriller ma parla della cosa che mi appartiene di più, che è la scrittura.
Grazie Paola è stato un piacere averti per un po’ nella redazione di G.A.Z
Grazie a voi.
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IL FILO ROSSO
Paola Barbato
Rizzoli
Pagine 346 -Prezzo 19,00 euro
Da cinque anni Antonio Lavezzi non ha più una vita. Una tragedia orribile ha distrutto la sua famiglia e lui è scappato, rifugiandosi in un paese dell’alto Veneto e nel suo lavoro di ingegnere edile. Metodico e preciso, si è impegnato per avere un’esistenza il più possibile anonima, al riparo da altri traumi. Poi, un giorno, il telefono squilla: Antonio deve correre in cantiere, è morto un uomo. All’inizio sembra solo un drammatico incidente, ma ben presto si svela essere qualcos’altro: quel morto è un messaggio per lui, una richiesta d’aiuto. Qualcuno gli chiede di fare ciò che nessun altro fa, gli chiede di liberare quella sete di vendetta che per troppo tempo ha tentato di comprimere, e di metterla al suo servizio. Antonio è confuso, ha paura di sporcarsi le mani, ma lentamente, senza quasi accorgersene, viene risucchiato in un vortice di messaggi da decifrare, di incontri sconvolgenti, di gesti inspiegabili. Non è lui a orchestrare il gioco, e non è neppure l’unico anello della spaventosa catena mortale: a lungo si limiterà a eseguire gli ordini e non farà troppe domande, ma al culmine della tensione sarà costretto a scegliere che cosa diventare. In un thriller che non dà tregua, Paola Barbato costruisce un’implacabile macchina narrativa alimentata dalla cronaca nera di questi anni, e mette a nudo sentimenti e ossessioni che non vorremmo mai confessare. Perché Antonio Lavezzi è un uomo come tanti, e il suo bisogno di giustizia è anche il nostro.